Teoria e prassi antiautoritaria

Sindacato

 

UN CONTRATTO EUROPEO PER I LAVORATORI DELL’INDUSTRIA DELL’AUTO

di Edo

Il “Corriere della sera” del 9 febbraio scorso, in un articolo intitolato: “Volkswagen, tornano gli aumenti salariali”, riportava la notizia della trattativa lampo e del relativo accordo siglato da IG Metal – il sindacato metalmeccanico tedesco – con cui si è ottenuto per quell’azienda automobilistica un incremento dei  salari del 3,2% (da ridiscutere dopo sedici mesi) più un bonus «una tantum» di almeno 500 euro, il che porta l’aumento a superare complessivamente il 4%. Se qualcuno considera basse queste percentuali, provi a confrontarle coi miseri incrementi salariali spuntati in Italia, negli ultimi vent’anni, grazie ai rinnovi contrattuali biennali riferiti ai tanto opinabili tassi di inflazione programmata!
A partire dunque dal 1° maggio i 100.000 lavoratori del maggior gruppo automobilistico europeo hanno conquistato un nuovo contratto che, oltre alla parte economica, prevede per i prossimi anni di portare l’organico totale a 290.000 dipendenti, con 40.000 nuovi posti di lavoro in altri paesi del mondo (35.000 in Cina).
Un contratto naturalmente tutto giocato sullo scambio con la piena disponibilità sindacale in tema di organizzazione del lavoro, quindi ad aumenti di efficienza e produttività, aspetti che ben si inseriscono all’interno della strategia complessiva della direzione aziendale VW, arrivare cioè al sorpasso sulla Toyota entro il 2018 con 10 milioni di veicoli prodotti.

A fronte di questa offensiva del sindacato cogestionario tedesco - che riesce comunque a sfruttare una esigenza oggettiva espressa dal proprio imperialismo, quella di ottenere una maggiore competitività nel confronto internazionale – si evidenziano ancor di più le difficoltà e i ritardi manifestati a casa nostra, più o meno nello stesso periodo, dai vertici CGIL e FIOM nel duro scontro con la FIAT.
Un scontro affrontato, certo, a testa alta dalla base dei lavoratori, ma che ha visto le suddette organizzazioni sindacali subire fondamentalmente i ricatti di Marchionne, non riuscire ad esprimere una proposta in grado di incidere sul terreno dei rapporti di forza, esternare - ad un certo punto – anche un disaccordo sul modo stesso di gestire la vertenza.
Un disaccordo tra Confederazione nazionale e Federazione di categoria che, nel recente episodio del referendum per imporre gli accordi di Pomigliano e Mirafiori anche alla fabbrica ex Bertone, si è trasferito all’interno della stessa FIOM, con lo strappo verificatosi tra quest’ultima e la RSU (a maggioranza FIOM) della fabbrica di Grugliasco.
I lavoratori non hanno voluto seguire le indicazioni della loro federazione ed hanno votato a favore dell’intesa FIAT. Maurizio Landini, che con onestà non ha voluto sconfessare la scelta di quegli operai, ha comunque commentato: “Non abbiamo firmato a Pomigliano e Mirafiori accordi che giudichiamo illegittimi. Abbiamo anche chiesto che la magistratura lo stabilisca… se uno viola la legge è giusto che intervenga il tribunale”.
Quando il Sindacato non è in grado di mettere in campo la sua forza contrattuale, la sua capacità di mobilitazione, una linea rivendicativa realmente autonoma rispetto ai vari attori del contesto politico, esso non può che oscillare – di volta in volta - tra i condizionamenti della controparte ed il vicolo cieco del ricorso alle sentenze dei magistrati. In entrambi i casi dimostra la propria subalternità alla borghesia, senza contropartita alcuna per i lavoratori.
 
Abbiamo cominciato parlando della situazione dei metalmeccanici in Germania. Per farsi un’idea più chiara della distanza intercorrente fra condizioni economiche degli operai nell’ambito dell’industria automobilistica europea, bastano pochi confronti: mentre un operaio tedesco della Volkswagen porta a casa fino a 2.500 € netti mensili, un operaio della FIAT Mirafiori si ferma a 1.200 €, mentre un operaio FIAT in Polonia ne guadagna non più di 700 (ed in condizioni lavorative ben peggiori di quelle italiane).
Questa situazione ha fatto dire a Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro Pd nel governo Prodi, in un’intervista a “Repubblica” che: “la vera soluzione del problema sarebbe in un contratto di categoria a livello europeo per evitare che chi fa lo stesso lavoro abbia paghe triple o quadruple in Germania, in Polonia, in Italia o in Serbia”.
Gli ha risposto sull’ ”Unità” Walter Cerfeda, ex dirigente FIOM ed attuale segretario Confederale dei Sindacati Europei (C.E.S.), il quale denunciando lo scarso ruolo della sua organizzazione in materia di predisposizione e coordinamento delle politiche contrattuali ha aggiunto: “I sindacati europei dovrebbero decidere di devolvere una fetta di poteri nazionali a livello europeo, perché al momento esiste una grande e drammatica asimmetria tra le imprese che sfruttano la mobilità transfrontaliera dei fattori produttivi e i poteri contrattuali dei sindacati che sono imprigionati a livello nazionale”.

Da tempo l’opposizione di classe all’interno della CGIL rivendica, in minoranza, la necessità del contratto europeo come unica via d’uscita ai limiti della contrattazione nazionale; quindi, come freno alla corsa internazionale al ribasso dei salari, alla delocalizzazione delle imprese, alla concorrenza oggettiva – oltre che all’assenza di collegamento - tra comparti di classe operaia.
Ma l’applicazione di uno stretto coordinamento internazionale delle vertenze sindacali non può essere una architettura calata dall’alto, una operazione burocratica, di segreterie, slegata dal coinvolgimento dei diretti interessati.
Il contratto europeo non deve rappresentare il contrappeso, sul versante dei lavoratori, alle politiche di convergenza delle istituzioni imperialistiche di Bruxelles, ma un formidabile strumento di unificazione delle lotte – e di innalzamento del loro livello - in un’ area continentale di vasta concentrazione operaia, come appunto quella europea.

EDO